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Diritto del lavoro

Smart Working: siamo davvero pronti?

Il presente articolo sullo smart working è stato pubblicato sul fascicolo n. 5-6/2019 di Lavoro e Previdenza Oggi

1. Premessa
Il motivo precipuo che mi ha indotto ad analizzare la disciplina dello smart working è uno spiacevole dato emerso dall’analisi dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, che ancora vede l’Italia collocarsi nel fanalino di coda europeo di lavoratori agili, con solo circa l’8%.
Le cause determinanti tale collocamento sono imputabili tanto al diritto quanto al management, poiché l’Italia è un paese che ha veduto susseguirsi approcci differenti ed in un certo senso controversi alla regolamentazione del diritto del lavoro.
Il legislatore si è spesso limitato a prendere atto delle rivoluzioni avvenute sul mercato del lavoro, senza mai anticiparle o crearne presupposti virtuosi di applicazione.
La sensazione che si avverte dunque è quella di abitare un mondo regolato da normative anacronistiche, affatto al passo coi tempi e con le evoluzioni storico sociali del settore lavoro.
Punto di riferimento del settore del lavoro è ancora il codice civile del 1942, normativa di stampo fordista ed ancora caratterizzata da un contesto sociale del tutto diverso da quello attuale.
L’Italia che nel 1970, dopo l’autunno caldo, ha adottato lo Statuto dei lavoratori, non certamente è più lo stesso Paese che nel 2014 approvava il Jobs Act, ennesima norma complessivamente inadeguata ed incompleta, poiché atta a regolare aspetti scoperti di disciplina da un lato, e generare lacune normative dall’altro.
Ci si chiede pertanto quale possa essere il nuovo approccio del management e della legge circa le forme di lavoro della gig o ondemand economy.
Occorre interrogarsi riguardo la capacità dello strumentario tipico della disciplina giuslavoristica di rispondere alla gig economy ed alle tendenze evolutive del mercato del lavoro a prescindere dalla classificazione del rapporto che si possa ritenere opportuna.
Se, infatti, da un lato le nuove forme ibride della gig economy del caso di Foodora hanno portano ad utilizzare la tecnologia per creare forme di lavoro per certi aspetti svalutate, dall’altro lo smart working, attraverso l’utilizzo della stessa tecnologia potrebbe indubbiamente cercare di valorizzare il lavoro.
L’Industria 4.0 deve essere recepita in un’ottica di employee retention, la capacità di mantenere in casa le risorse umane. La vera abilità di una nuova organizzazione deve risiedere proprio nel potere di trattenere le persone di valore all’interno dell’azienda. Solo una politica di employee retention è capace di attrarre e valorizzare i profili più promettenti ad ogni livello della struttura organizzativa, poiché li riconosce e cerca di trattenerli.
È necessario dunque valutare lo smart working sotto tre punti di vista: il management, la contrattazione e la Legge n. 81/2017.
Management, contrattazione e diritto si pongono, infatti, nei confronti dello smart working, in un rapporto di contaminazione reciproca che ne determina non soltanto il suo recepimento, ma anche – e soprattutto – la sua coerente gestione.

2. Management
La cattiva gestione dello smart working da parte del management assume connotati diversi in base alle declinazioni aziendali; a seconda che siano aziende a vocazione internazionale ovvero aziende a vocazione nazionale, la disciplina dello smart working viene recepita in maniera differente.
Basti pensare, al riguardo, che nel settore privato la contrattazione collettiva si era già occupata dello smart working, prima della Legge n. 81 del 2017, attraverso contratti collettivi aziendali da parte di aziende a vocazione internazionale.
In Italia si può quasi certamente affermare che difficilmente un’azienda con vocazione nazionale riconosca allo smart working tutta la pregnanza che potrebbe derivare dal suo corretto recepimento.
Tre sono le declinazioni che assume lo smart working nelle imprese di stampo nazionalistico: lo smart working viene considerato come uno sviamento della produttività, a cui molto spesso viene privilegiato il telelavoro, strumento che si caratterizza per un maggior controllo datoriale della prestazione lavorativa; lo smart working viene considerato – in senso atecnico – come una sorta di fringe benefit concesso al lavoratore che ha lavorato bene in azienda; lo smart working può essere infine considerato come un sostitutivo dei permessi in particolari giorni dell’anno che si caratterizzano per essere poco produttivi[1].
Le organizzazioni aziendali sono ancorate tuttora ad uno stringente controllo datoriale, in cui il datore di lavoro è all’apice della scala gerarchica: occorre separare con nettezza il controllo sul risultato dal controllo sulla persona.
Il management tradizionale è organizzato su un concetto standard di efficienza finalizzato ad ottenere risultati ottimizzando le proprie risorse disponibili; la struttura organizzativa delineata dall’art. 2086 c.c. funziona dunque secondo una linea ben precisa di responsabilità, caratterizza dall’efficienza aziendale di best practice.
La struttura organizzativa tradizionale risponde ai criteri di organizzazione, efficienza e pianificazione; criteri che trovano corrispondenza anche nel design degli spazi e dei tempi di lavoro[2].
Lo smart working, invece, richiede un nuovo contesto organizzativo in cui le persone siano maggiormente responsabilizzate e non siano limitate da una struttura fortemente gerarchica che rischia di intaccare l’efficacia della propria prestazione lavorativa; il management che ne deriva deve essere non solo meno gerarchico, strutturato ed efficiente, ma anche molto più flessibile, agile, efficace e veloce[3].
Lo smart worker rifiuta così il sistema organizzativo gerarchizzato, in uno spazio strutturato e caratterizzato da un tempo definito e fisso, per arrivare a zone di maggiore produttività, che si conciliano al meglio con il proprio work-life balance[4].
Queste esigenze del lavoratore, tuttavia, non sono di immediata ricezione del management, determinando la ricerca di produttività al di fuori dell’azienda.
Il lavoro “produttivo” così non avviene sul luogo di lavoro[5].
Questo paradosso deve essere, dunque, tradotto a livello organizzativo secondo le forme di agilità e logiche di produttività dello smart worker, per far ritornare così il lavoratore agile sul luogo di lavoro.
Il luogo di lavoro anche deve assumere i caratteri di flessibilità e non solo la modalità in cui questo viene eseguito.
Il management anche, pertanto, deve essere reinventato in un’ottica nuova e chiara, non più fondata su un rigoroso controllo datoriale, che inizia col disinteressarsi del luogo e dei tempi dedicati dallo smart worker alla prestazione lavorativa.
Il controllo sulla dimensione spazio-temporale deve superare un’abitudine al controllo e ad uno stile direttivo legittimati dall’art. 2094 e ss. c.c.
Lo smart worker, tuttavia, essendo un lavoratore collocato al di fuori dello spazio fisico e psicologico delle gerarchie aziendali, provoca all’opposto un’intensificazione del controllo datoriale.
Il primo rimedio al problema del controllo manageriale risiede nella concessione di maggior fiducia allo smart worker, intesa come responsabilizzazione dello stesso; per garantire la fiducia è necessario ridefinire i risultati che il management si attende delineando nuovi ambiti di autonomia decisionale ed operativa. Lo smart worker avrà così ampi margini di manovra sulle modalità di raggiungimento dei risultati prefissati, ed il controllo datoriale risiederà solo sul raggiungimento o meno dei risultati portati a termine dallo stesso.
La fiducia così intesa diviene sinonimo di vulnerabilità dello smart worker[6]. La vulnerabilità, tuttavia, non deve essere intesa in un’accezione negativa, ma in un’accezione positiva: mostrare le proprie debolezze significa creare senso di appartenenza, fiducia reciproca e dunque di innovazione; lo smart working diviene così un modo di rinunciare ai propri formalismi, per mettersi alla pari e non essere quello che sa di più o quello che sa prima degli altri. Il lavoratore perde dunque la sicurezza del proprio ufficio per mescolarsi alle altre persone: la vulnerabilità crea così fiducia[7].
La vulnerabilità ha anche declinazioni tecnologiche; lo smart worker deve, infatti, saper ammettere di avere bisogno di imparare dai propri collaboratori per aumentare le proprie capacità di trattare con gli strumenti digitali; molto spesso, infatti, giovani lavoratori in stage (millennials) sono incaricati di effettuare sessioni di coaching digitale per i propri manager, dimostrando così a tutti i lavoratori quella vulnerabilità capace di creare fiducia.
Il problema dello smart working in Italia, tuttavia, non deriva solo dalla cultura manageriale ma anche da una cultura del lavoratore stesso; si avverte infatti la sensazione che il lavoratore medio si senta ancora cittadino italiano e poco cittadino del mondo, preferendo di conseguenza il classico binomio comando-direzione piuttosto che l’autonomia verso cui sembra protendere lo smart working sul volano dell’IOT.
Un lavoratore agile è portatore di caratteristiche e bisogni che lo differenziano in modo netto rispetto ad un normale lavoratore del passato.
Bisogno primario di ciascun smart worker è di poter lavorare liberamente, senza doversi sentire costretto da un paradigma organizzativo limitativo della propria libertà di azione[8]; maggiore libertà significa anche maggiore responsabilità, poiché svolgere la propria prestazione a distanza comporta anche dover rispondere delle proprie azioni agli occhi del management al fine di garantirne l’efficienza. La maggiore responsabilità determina, d’altro canto, una nuova rappresentazione del successo, poiché obbliga il lavoratore agile a gestire al meglio la propria vita lavorativa e la propria personale; lo smart working è proprio questo: avere successo, non sacrificando gli altri, ma includendo tutti coloro che professionalmente e privatamente incidono sulla propria attività lavorativa.
Lo smart worker diventa così il simbolo di una comunità di finalità non percepibile all’interno di un’azienda, ma che incide su ogni sua azione professionale e personale[9]. Tale distanza dall’azienda genera benefici indotti sul progetto, poiché lavorare a distanza determina una maggiore concentrazione sui lavori da svolgere; il lavoratore agile riesce ad essere maggiormente focalizzato sul progetto professionale senza essere distratto dai riferimenti e simboli materiali che caratterizzano i riti aziendali.
Le esigenze dello smart worker determinano a loro volta un bisogno di maggiore incisività e proficuità degli incontri aziendali; lo smart worker rifugge così i tradizionali meeting aziendali[10] per approdare ad incontri di maggiore essenzialità tra le parti.
Il lavoratore agile può contribuire a far uscire dalla zona di improduttività quella parte dei lavoratori che continuano a svolgere la prestazione lavorativa in azienda, diventando espressione di rinnovamento del posizionamento aziendale[11].

3. Contrattazione collettiva
I cambiamenti del mercato del lavoro si percepiscono soprattutto all’interno delle organizzazioni aziendali, in cui molto spesso si avverte la necessità di un mutamento (non solo normativo, ma anche e soprattutto) delle relazioni industriali, poiché – come in precedenza affermato – le parti in gioco sono ancora legate ad imprese fortemente gerarchizzate.
Non v’è da stupirsi, dunque, che lo smart working sia stato introdotto per la prima volta, sul mercato del lavoro, tramite la contrattazione collettiva delle grandi multinazionali dislocate sul territorio italiano, poiché il lavoro agile è un chiaro prodotto di questa evoluzione organizzativa.
Il legislatore non ha in alcun modo anticipato le istanze sociali, ma si è semplicemente limitato a prendere contezza delle esigenze che alcuni settori merceologici avevano già rilevato attraverso la contrattazione: molteplici elementi trattati dalla Legge n. 81/2017 sono infatti diretta riproposizione di quei contratti collettivi[12].
Si tratta di grandi aziende a vocazione internazionale dislocate anche al di fuori dell’Italia ed appartenenti a diversi settori merceologici: bancario, energetico, assicurativo, farmaceutico ed alimentare (per citarne alcuni).
Nel settore bancario, ad esempio, si parlava di smart working ben prima della Legge n. 81 del 2017, al punto che già nel 2015 Banca Nazionale del Lavoro avviava un progetto “Smart Bank”, che consentiva al lavoratore di svolgere la prestazione lavorativa anche al di fuori dei locali dell’azienda, utilizzando strumenti tecnologici forniti dalla stessa; e nello stesso anno, UBI Banca e Gruppo Banco Popolare iniziavano a concedere questa nuova modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.
Proprio in questi settori, dunque, dove CGIL, CISL e UIL, sono accompagnate, da numerosi altri sindacati autonomi, il più importante dei quali è la FABI, che lo smart working non solo è nato, ma continua ad essere coerentemente gestito.
I terreni più fertili dove attecchisce lo smart working sono dunque quelli con un alto tasso di sindacalizzazione, dovuto (per l’appunto) alla vocazione internazionale delle aziende, poiché qui il dialogo sociale – favorito dal pluralismo sindacale – sfocia quasi sempre in un proficuo confronto tra le parti[13].
Proprio in questi sistemi di relazioni industriali di secondo livello sono dunque nati (e nascono) i primi servizi integrativi di welfare volti al miglioramento del benessere lavorativo, al cui interno viene ricompreso proprio lo smart working.

4. Diritto
Un efficiente sistema di relazioni industriali non tuttavia di per sé sufficiente, se non è corroborato da un’adeguata normativa che possa permettere di stigmatizzare le concezioni oramai anacronistiche delle imprese a vocazione nazionale.
La normativa sullo smart working ha generato notevoli problemi interpretativi derivanti dal contesto giuslavoristico presente nel nostro ordinamento.
In data 10 maggio 2017, il Senato ha approvato la legge sulle “misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoratore subordinato”; il fine primario della Legge n. 81 del 2017 non è stato, pertanto, di ricondurre ad un unicum la disciplina dello smart working, ma di promuovere il lavoro agile in tutte le sue forme.
Lo smart working è il prodotto dell’evoluzione organizzativa aziendale: una nuova modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, previo accordo tra le parti, contraddistinta dall’assenza di vincoli orari o spaziali e da un’organizzazione divisa in fasi, cicli e obiettivi[14].
Per ricorrere a tale modalità di lavoro è necessario dunque un accordo scritto fra datore di lavoro e lavoratore, nel quale siano predeterminate le modalità di esecuzione della prestazione; l’accordo tra le parti sebbene inerisca una molteplicità di aspetti della prestazione lavorativa, non deve scandire ogni fase della prestazione, ma solo alcuni elementi prestabiliti dalla legge.
Nel silenzio del legislatore, dunque, la volontà delle parti avrà effetto dirimente rispetto al tempo ed al luogo della prestazione lavorativa: più sarà dettagliato l’accordo, più sarà delimitata la prestazione in smart working.
Proprio dall’accordo tra le parti derivano le maggiori problematiche della normativa.
L’accordo disciplina infatti la prestazione lavorativa anche riguardo le “forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro[15]”.
Tale dicitura creerebbe un paradosso: il potere direttivo del datore di lavoro, non essendo un potere pattizio, non può essere oggetto di accordo tra le parti; onde parrebbe evidente il contrasto tra la disciplina dello smart working ed il rapporto tipizzato dal codice civile nel 1942, in cui il potere direttivo viene esercitato unilateralmente dal datore di lavoro.
Una lettura più attenta della norma, tuttavia, poste le ovvie perplessità riguardo la formula utilizzata dal legislatore, sembrerebbe far propendere l’oggetto dell’accordo tra le parti non sul contenuto del potere direttivo, quanto sulle modalità in cui questo si manifesta[16].
Se da un lato, tale lettura risolverebbe il contrasto anzidetto, dall’altro pone ulteriori dubbi su come il potere direttivo debba essere esercitato[17] alla luce del IOT in cui tutto è lavoro.
Dall’accordo tra le parti derivano però ulteriori problematiche, poiché saranno datore di lavoro e lavoratore a stabilire il tempo della prestazione lavorativa con l’unico limite derivante dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
Elemento caratterizzante, ma non necessario, della disciplina del lavoro agile è la flessibilità nel tempo della prestazione lavorativa, che viene tuttavia prontamente limitata dalla “durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva[18]”. Tale limite, in realtà, non deve essere inteso in senso rigido, poiché la prestazione lavorativa può essere svolta anche in tempi inferiori rispetto quelli previsti dalla legge o dalla contrattazione; eccettuati, pertanto, i limiti massimi della prestazione lavorativa, la prestazione deve essere sempre e comunque svolta senza precisi vincoli di orario.
Un ulteriore aspetto problematico della disciplina dello smart working, che lo differenzia rispetto la disciplina comune di rapporto subordinato riguarda il licenziamento, poiché i datori di lavoro e lavoratori devono sottostare a determinati limiti. Nel caso di specie, infatti, non si tratta né di licenziamento, né di dimissioni poiché con il recesso dal contratto di smart working, il dipendente continuerà l’attività lavorativa secondo le modalità ordinarie del lavoro subordinato tradizionale.
Per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato il recesso può avvenire con un preavviso di 30 giorni (o più), e di 90 giorni (o più) nel caso di lavoratori disabili; tale obbligo di preavviso non è previsto in caso di recesso per giusta causa. Per i rapporti a tempo determinato, invece, è possibile recedere in anticipo solo in presenza di giusta causa[19].
Le modalità di recesso sembrano solo apparentemente coerenti con la disciplina del licenziamento individuale, poiché genera ulteriori dubbi in merito alla distinzione dei motivi che giustificano il recesso dallo smart working ed i motivi che ne giustificano il licenziamento.
Non è infatti agevole comprendere cosa debba intendersi per “giustificato motivo” di recesso.
Agli smart workers è garantita, inoltre, la parità di trattamento economico e normativo rispetto ai colleghi che continuano ad eseguire la prestazione lavorativa attraverso modalità ordinarie[20].
Il criterio da utilizzare per l’individuazione del trattamento economico “non inferiore a quello complessivamente applicato” non è apparentemente chiaro, ma per coerenza con l’impianto normativo dovrebbe essere quello del conglobamento: le parti possono introdurre trattamenti differenziati in peius, ma tale differenziazione deve essere necessariamente controbilanciata da altre previsioni più favorevoli[21].
Il problema principale dello smart working afferisce tuttavia – ancora una volta – l’accordo tra le parti, poiché ai sensi dell’art. 21 il potere di controllo del datore di lavoro è disciplinato dall’accordo tra le parti e può essere esercitato nei limiti previsti dall’art. 4 Stat. Lav.; l’accordo individua altresì le condotte rilevanti dal punto di vista disciplinare.
Il problema risiede nel comprendere quali siano gli strumenti che vengono concessi al lavoratore per rendere la prestazione lavorativa: uno strumento necessario a consentire l’espletamento delle mansioni cui è adibito il prestatore può determinare infatti un controllo sull’operato stesso del lavoratore.
In quest’ottica lo smart working si sposerebbe perfettamente con l’art. 4 così come recentemente novellato dal Jobs Act; tale articolo, infatti, recependo i cambiamenti del mercato del lavoro, differenzia gli strumenti di controllo a distanza tipici dagli strumenti di controllo aticipi di cui al comma 2, art. 4, Stat. Lav.
Il controllo avverrebbe dunque attraverso gli strumenti necessari utilizzati per rendere la prestazione lavorativa e senza limite per il datore di lavoro.

5. Conseguenze
Il mancato recepimento e soprattutto l’incoerente gestione dello smart working determinerà un fenomeno già vissuto nella vita di tutti i giorni con la telefonia mobile[22].
Peccato originale di tutto ciò è indubbiamente la scarsa cultura italiana a recepire i cambiamenti del mercato del lavoro.
Sebbene il legislatore non abbia ben chiaro cosa debba intendersi per smart working, ne incentiva l’utilizzo e, di contro, anche lo stesso management non ne comprende a pieno le potenzialità.
Il mercato del lavoro italiano è del resto soggetto alle mode dei tempi; a lungo andare si utilizzerà sempre più spesso lo smart working, in tutte le sue possibili aberrazioni declinatorie senza averne tuttavia una corretta attuazione.
La parola smart verrà così svuotata del suo pregnante significato, iniziando ad essere utilizzata come una moda del momento; accadrà per lo smart working ciò che è già successo per lo smart phone.
Quando venne introdotto sul mercato, lo smart phone, considerato come un punto di rottura rispetto al passato, introdusse una nuova via della telefonia mobile; a lungo andare, però, tutti i telefonini sono diventati per moda smart. Lo smart phone è diventato così sinonimo di ciò che aveva cercato di sostituire: il telefonino; questo non ha certamente privato lo strumento di tutte le sue potenzialità smart, ma ne ha diminuito chiaramente la portata innovativa sul mercato perché in un mondo in cui tutto è smart, niente lo è più realmente.
In ragione di ciò, nel momento in cui tutte le prestazioni lavorative saranno diventate impropriamente smart, nessuna lo sarà realmente; in quel caso sarà forse troppo tardi e si sarà persa nel mercato del lavoro una grande occasione, diventando smart working sinonimo del ‘semplice’ working.


[1] Ad esempio i ponti delle festività, che sono spesso giorni in cui la produttività aziendale è carente.

[2] M. Zifaro, Economia aziendale, diversity management e capitale umano: peculiarità nei sistemi complessi, Milano, 2010.

[3] S. McChrystal – T. Collins – D. Silverman – C. Fussell, Team of Teams – New Rules of engagement for a complex world, New York, 2015.

[4] A. Edmonson, Teaming, How organization learn, innovate and compete in knowledge economy, San Francisco, 2012.

[5] J. Fried, ReWork, change the way you work forever, 2010.

[6] B. Brown, Osare in grande. Come il coraggio della vulnerabilità trasforma la nostra vita in famiglia, in amore e sul posto di lavoro, Roma, 2013.

[7] G. Botteri – G. Cremonesi, Smart working & smart workers, Milano, 2017, 45.

[8] O. Scharmer, Leadership in un futuro che emerge. Da ego-sistema a eco-sistema: nuove economie e nuove società, Milano, 2015.

[9] A. Migliardi, Working Age – La valorizzazione delle diverse età in azienda, Milano,2011.

[10] P. Lencioni, Morto di riunioni, Milano, 2006.

[11] G. Botteri – G. Cremonesi, op. cit.

[12] M. Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 335/2017.

[13] M. C. Ambra, Dal controllo alla fiducia? I cambiamenti legali all’introduzione dello “smart working”: uno studio di caso, in Labour & Law Issues, 2018, 4, 6.

[14] Art. 18, Legge n. 81 del 2017.

[15] Art. 19, Legge n. 81 del 2017.

[16] G. Proia, L’accordo individuale e le modalità di esecuzione e di cessazione della prestazione di lavoro agile, in L. Fiorillo –A. Perulli (a cura di), Il Jobs Act del lavoro autonomo e del lavoro agile, Torino, 2017.

[17] D. Mezzacapo, Il lavoro agile ex legge n.81/2017: note minime e problemi aperti, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT Collective Volumes, n. 6/2017, 132.

[18] Art. 18, Legge n. 81 del 2017.

[19] Art. 19, co. 2, Legge n. 81 del 2017.

[20] Art. 20, Legge n. 81 del 2017.

[21] G. Santoro-Passarelli, Lavoro eterorganizzato, coordinato, agile e il telelavoro: un puzzle non facile da comporre in un’impresa in via di trasformazione, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 327/2017, 13.

[22] G. Botteri – G. Cremonesi, op. cit.

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