Rottamando l’art. 18 S.L., il Jobs Act è stato in questi anni talmente demonizzato da creare dei veri e propri falsi miti.
Non v’è dubbio che l’intenzione originaria del legislatore con la Legge Delega n. 183/2014 fosse di limitare «il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato», ma non v’è altrettanto dubbio che le finalità del Jobs Act siano completamente venute meno nel corso di questi anni.
Molto probabilmente «l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore» avrebbe dovuto avere un significato diverso dall’art. 18 S.L. così come modificato dalla Legge n. 92/2012.
Poiché il legislatore aveva ritenuto necessario dover specificare che il fatto dovesse essere considerato nella sua ‘materialità’, era ragionevole pensare che il Jobs Act avesse voluto positivizzare il primo orientamento della Corte di Cassazione in merito all’ «insussistenza del fatto contestato» post Fornero, ma così non è stato perché la giurisprudenza ha definitivamente interpretato l’art. 3, comma 2, D.lgs. n. 23/2015 alla stregua dell’art. 18, comma 4, S.L.
Il contratto a tempo indeterminato per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 non è più a “tutele crescenti”.
È indubbio che il Jobs Act avesse voluto introdurre un regime indennitario quantificabile dal datore di lavoro ex ante, ma il Giudice delle Leggi ha dichiarato irragionevole distinguere la tutela indennitaria tra lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, dichiarando incostituzionale il parametro fisso delle «due mensilità» per ogni anno di servizio di cui all’ art. 3, comma 1, D.lgs. n. 23/2015.
Il Decreto Dignità ha aumentato il minimo ed il massimo della tutela indennitaria dell’art. 3, comma 1, D.lgs. n. 23/2015: da 4-24 a 6-36.
L’indennità massima da corrispondere ad un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 è dunque notevolmente maggiore rispetto a quella dei lavoratori assunti con art. 18, comma 5, S.L. (anche se nell’atto pratico non vengono mai date 36 mensilità)
Il Decreto Cura Italia offre ora l’ occasione per superare la querelle sulle nullità virtuali.
Poiché l’art. 2, comma 1, D.lgs. n. 23/2015 prevede la reintegrazione piena negli «altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge», secondo gran parte della dottrina il Jobs Act avrebbe escluso tutela reintegratoria qualora il legislatore non avesse ‘espressamente’ sancito la nullità del recesso, ma sarebbe oggi irragionevole pensare ad una diversificazione di tale portata per i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 in caso di violazione del divieto di cui all’art. 46 D.L. n. 18/2020.
Resta ancora un dubbio insoluto: le conseguenze sanzionatorie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il Jobs Act prevede infatti la mera tutela indennitaria nel caso in cui «non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
L’esclusione della reintegrazione operata dal D.lgs. n. 23/2015 non ha fatto altro che accrescere nel corso di questi anni l’interesse sull’utilizzo strumentale da parte dei datori di lavoro della vecchia «manifesta insussistenza» del g.m.o., a cui l’art. 18, comma 7, S.L., riconduceva una reintegrazione attenuata.
Di recente anche una pronuncia del Tribunale di Roma sembra confermare questa riconducibilità delle ipotesi di «manifesta insussistenza» ad una mera tutela indennitaria.
A mio avviso, tuttavia, anche per queste ipotesi di recesso è necessario sfatare il falso mito.
Adesso un lavoratore dovrebbe infatti offrire al giudice lo spunto per una indagine sulla reale motivazione del recesso per g.m.o., dietro al quale potrebbe invero rivelarsi un esclusivo intento punitivo e disciplinare, ovvero ritorsivo ex art. 1345 c.c.
Così facendo allora mentre la «manifesta insussistenza» prima del 7 marzo 2015 comportava la reintegrazione più il pagamento un massimo di dodici mensilità, dopo il 7 marzo 2015 potrebbe anche implicare la reintegrazione più il pagamento di tutte le retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se non fosse stato licenziato, se adeguatamente dimostrato giudizio il vero intento del datore di lavoro.
Ecco sfatati dunque alcuni dei falsi miti sul Jobs Act.