Il Tribunale di Ravenna (prima parte e seconda parte) qualche giorno fa ha sollevato questione di legitimità costituzionale con riferimento all’art. 3, d.lgs. n. 23/2015 nella parte in cui non prevede la reintegrazione anche nel caso di insussistenza del motivo oggettivo posto alla base del licenziamento.
Come è noto, nel corso degli anni si è avuto uno smantellamento del Jobs Act da parte della giurisprudenza (non solo quella costituzionale): prima è “venuto meno” l’aggettivo «materiale» e poi il parametro fisso delle due mensilità.
Si potrebbe però dire che, ove venisse accolta la presente questione di legittimità costituzionale, non vi sarebbe più quasi nessuna differenza tra i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015.
Ma la domanda è proprio questa: la Consulta dichiarerà incostituzionale la disposizione?
Si tratterebbe di una presa di posizione importante da parte del giudice delle leggi, perché finirebbe per sostituirsi definitivamente al legislatore con riferimento alla normativa lavoristica. È questo che da sempre ha eccepito la dottrina nei confronti interventi di smantellamento della Corte costituzionale ai danni del Jobs Act.
Quel che preme sottolineare in questa sede invece è che adesso un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 e licenziato per un motivo oggettivo “manifestamente” insussistente avrebbe diritto in astratto a beneficiare di 36 mensilità, mentre un lavoratore assunto prima di quella data al massimo ne avrebbe 27 (optando per le 15 mensilità in luogo della reintegrazione).
In fondo in fondo allora non è poi così male questo Jobs Act, se si pensa anche a quanto sia duro tornare alle dipendenze di qualcuno che non gradiva la propria presenza.
La parola alla Corte Costituzionale. Sul 3 a 0 la partita finirebbe per evidente “cappottone”.