Non tutto il Jobs Act è incostituzionale, anzi adesso sembrerebbe poter rimontare il 2 a 1 con la Consulta.
Molto probabilmente la Corte d’Appello di Napoli, forte delle precedenti pronunce della Consulta n. 194/2018 e 150/2020, riteneva fosse giusto adire il Giudice delle leggi per pronunciarsi sulla disciplina licenziamenti collettivi post Jobs Act.
La Corte d’appello si era infatti trovata a dover decidere su un licenziamento collettivo relativo a lavoratori assunti pre e post 7 marzo 2017, applicando un regime sanzionatorio differenziato sulla base della sola data di assunzione, ma «in una procedura comparativa unitaria di posizioni omogenee appare, infatti, irragionevole e contrario ai principi di parità di posizioni sostanzialmente omogenee ritenere che medesimi diritti coinvolti nello stesso e simultaneo processo selettivo, finalizzato ad assicurare una valutazione imparziale, siano assoggettati a sistemi di tutela sostanzialmente difformi. La concorrenza di due sistemi, di cui uno inadeguato, appare oggettivamente idonea a influenzare l’esercizio del potere di recesso del datore di lavoro orientandone la scelta sulle posizioni meno tutelate».
Riassumendo dunque il pensiero del giudice a quo:
1) le nuove disposizioni sui licenziamenti collettivi violerebbero il principio di eguaglianza e ragionevolezza tutelando i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente peggiore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data, continuando questi ultimi a godere del più favorevole regime di tutela previsto dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012;
2) la data di assunzione è un dato formale inidoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale.
La Corte costituzionale dichiara tuttavia inammissibili le questioni, poiché la motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza delle questioni era insufficiente e non era altresì chiaro il tipo di intervento richiesto alla Consulta.
Bisognerà attendere ancora le motivazioni della Corte tuttavia si potrebbero fin da subito anticipare le ragioni.
È necessario ricordare infatti che, a proposito della delimitazione della sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo, è costante giurisprudenza della Consulta a è costante affermare che «non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008)» (sentenza n. 254 del 2014, punto 3. del Considerato in diritto), poiché «[s]petta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme […] (sentenze n. 273 del 2011, punto 4.2. del Considerato in diritto, e n. 94 del 2009, punto 7.2. del Considerato in diritto)» (sentenza n. 104 del 2018, punto 7.1. del Considerato in diritto).
La modulazione temporale dell’applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015, sarebbe dunque “ragionevole” e conseguentemente non contrasterebbe con il principio di eguaglianza in ragione del fine dell’intervento: «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014).
Riassumendo il fine dell’intervento del 2015: più flessibilità in uscita determina più flessibilità in entrata.
La differenza temporale di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 sarebbe dunque del tutto coerente con il fine menzionato, avendo il legislatore introdotto un’unica e certa tutela in caso di licenziamento collettivo illegittimo: quella indennitaria.
Ciononostante è necessario evidenziare che la disciplina dei licenziamenti collettivi richiede comunque riflessioni di ben più ampio respiro: sarebbe risultato più utile infatti intervenire sulla Legge n. 223/1991, anziché eliminare le ipotesi di reintegrazione, poiché il vero problema dei licenziamenti collettivi è la procedura richiesta dalla Legge, che ha ancora confini troppo labili per garantire una effettiva certezza per capire quando un licenziamento collettivo è legittimo e quando non lo è.